Assonime pubblica l'articolo che il Direttore Generale Stefano Micossi ha scritto per il sito InPiù.
Sembra più un programma elettorale che un programma di vere riforme
Dalle bozze che circolano, il Piano nazionale di riforma pare più un programma elettorale che una strategia economica. Alta velocità per Roma dappertutto, digitale nelle scuole e meno tasse per le classi medie sono le parole chiave. Non si vede un piano per il sistema educativo, dai programmi scolastici alla formazione permanente all’università. Non si vede un progetto per un mercato del lavoro ancora ingessato dal contratto nazionale e dalle protezioni per coloro che un lavoro ce l’hanno; si vede che bastano il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione anche per le aziende che non si reggono più in piedi. Di un piano nazionale per le infrastrutture, neanche a parlarne; l’antipasto ce lo ha fornito la discussione sul decreto semplificazioni, che più che semplificare introduce qualche nuova procedura speciale per aggirare le norme esistenti, sempre intoccabili. Non riescono ad accordarsi neanche su una lista di opere da sbloccare. Mancano anche le scelte strategiche per la trasformazione digitale dell’economia, che richiederebbero una forte spinta dello Stato, ma anche scelte controverse per spostare risorse immobilizzate.
Quanto al fisco, lotta all’evasione (ma và!) e riduzione dell’Irpef, senza mai indicare una copertura (in questo, l’opposizione si distingue per la lista delle tasse da cancellare, ma non per la ricerca di coperture) e una fantomatica riforma dell’IVA che indica in codice il desiderio, inespresso e inesprimibile, di ridurre il numero delle aliquote ridotte. Come base per richiedere all’Europa 172 miliardi, il Recovery Fund condizionale che piace a tutti perché è lontano, pare poca roba. Mentre non siamo capaci di prendere i 36 miliardi del Mes con i quali potremmo subito iniziare a rafforzare le strutture sanitarie e sostenere i costi aziendali per adattare gli impianti produttivi alle nuove condizioni di sicurezza, quello no: fa parte della lista dei non-possumus del M5S, dopo il no-VAX, no-TAP, no-TAV e no-Xilella (e no-Alitalia, no-Ilva, no ristrutturazioni, no-cambiamento). Alla fine magari poi cedono, tardi e male, e intanto l’economia langue.